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La cristalliera

a cura di Fausto Russo

3 Settembre 2024

La cristalliera

La cristalliera

“Non si parla quando si mangia”

Lo si ripeteva spesso in quelle famiglie che consideravano lo stare a tavola come un rito, verso il quale era un implicito il non sottrarsi. I membri della famiglia che si ritrovavano a tavola sancivano un’unione che era quasi impensabile rompere. Poco importa se quel sedersi tutti insieme non veniva sostanziato da uno scambiarsi pezzi di mondi di dentro che, ognuno, era implicitamente tenuto a custodire e a non esprimere. Per consuetudine, per pudore, fondamentalmente perché le emozioni, gli affetti, i sentimenti, le gioie, i dubbi, i timori, rappresentavano un materiale assai compromettente, con cui non si era preparati a fare i conti.

Famiglie senza confronto reale, senza condivisione del proprio patrimonio emotivo: meglio, allora, riunirsi davanti al nuovo focolare. Quella scatola nera con la maggior parte dei suoi programmi dalla presa emotiva superficiale e grossolana, con situazioni poco credibili, sbilanciati o sull’edulcorare serenità o sull’estremizzare rischi e pericoli.

Si soddisfaceva il bisogno naturale di emozionarsi solo attraverso le situazioni degli altri, verso i quali scattavano sentimenti, volta per volta, di solidarietà, perfino di commiserazione o, al contrario, di condanna o di aggressione espulsiva.

Abbastanza diffusa risultava la tendenza a “raccontarsela”, ad esibire presunte forme di superiorità, che fossero guasconescamente innocenti o perfino perfidamente supponenti.

Altrettanto consueta era la possibilità di scegliere chi appena la faceva fuori dal vaso per prenderlo in giro e per burlarlo, illudendosi di essere creativi ma in realtà sottraendosi ad una relazione empatica. Perché, se si fosse abbandonato il copione obbligato e statico dello sfottò, i commensali sarebbero riusciti a promuovere visioni e visionarietà, capaci di saltare lo stretto reale, per dirigersi verso il possibile: ma, poi, avrebbero dovuto governare transiti emotivi verso i quali erano, evidentemente, impreparati.

La perversione forse più marcata apparteneva ad un’altra parte della casa, quella che nasceva come sala da pranzo. La sala da pranzo, al centro dell’architettura domestica, diventava un tempio da esibire ai visitatori: altare ne era la cristalliera. Mobile icona, che custodiva collezioni pregiate di servizi da pranzo in ceramica, anche decorata in oro, posate in argento, ed una miriade di orpelli spesso inutilizzati ed inutilizzabili. Erano servizi che si impiegavano, forse, una volta all’anno, tanto pregiati da ritenere di non profanare nell’uso corrente.

Erano tristi quelle stanze da pranzo. Non perché se ce li avevi eri qualcuno, ma, piuttosto, perché se non ce li avevi eri uno così così.

Ma, intanto, tutte le case, nel loro bilancio di abitabilità, finivano con il perdere regolarmente quella stanza, che di fatto non si usava quasi mai. Perciò, non veniva neanche riscaldata, rimanendo più che gelata. La polvere, però, gliela si toglieva ed i vetri delle cristalliere venivano lucidati con puntualità ossessiva: “non si sa mai, dovesse venire qualcuno. Una stufa, poi, la rimediamo sempre all’occorrenza”.

Insomma, era una stanza inutilizzata, anche se per paradosso era la più bella, ma era una stanza in meno nella casa.

Una delle conseguenze di tutto ciò era che, con il passare degli anni, tazze e bicchieri   diventavano inevitabilmente fuori moda. Allora li si dovevano nascondere un pò, magari coprendoli con le bottiglie di liquore.  Il liquore: un’altra icona dell’inutilità e della alienazione, non tanto perché l’alcool illude di scaldare il cuore a chi il cuore non riesce ad impegnarlo nelle relazioni, ma, forse ancora peggio, perché si tende ad usarlo come inanimato obolo di sé agli altri, sostitutivo delle parti affettivo-relazionali di sé, ben più vere ma ovviamente più impegnative.

Anche le nostre anime, in verità, per tanto tempo hanno avuto come modello la sala da pranzo. Anzi, erano loro stesse una sala da pranzo, anche se ci può venire un brivido nel pensarlo.

Nascondersi dietro un impeccabile perbenismo di facciata, corrispondeva, perciò, alla metafora della stanza più esibita, più bella ma meno vissuta, con i suoi mobili impeccabili e lucidati, magari con qualche ricercatezza che faceva la differenza. Dietro la nostra cortesia perbenistica, eravamo veramente individualisti, statici, poco empatici e concentrati prevalentemente sui “fatti nostri”. Non ci davamo granché e non ci lasciavamo penetrare da flussi e declinazioni emotive, nonostante il nostro affaccendarci ridondante.

Forse oggi, quando finalmente la cultura sta smettendo di ricondurre la vita ad un fatto privato per inserirla, invece, in una dimensione interpersonale che non separi la persona dal contesto, è il caso di andare a far visita a qualcuna di quelle anime. Per capire bene che strade hanno percorso, che sentieri nuovi hanno costruito, che tracce hanno lasciato.





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